18/09/09

Margherita Coletta

Grazie ad Anna Vercors, rilancio l'intervista di Margherita Coletta, che perse il marito a Nasiriya , apparsa su Avvenire a firma di Lucia Bellaspiga.
In questi giorni si sprecano tante parole.
Margherita Coletta ne spende di vere.


«Ogni volta rivivo lo strazio»

Anche ieri lo ha saputo al telefono da un’amica, come era avvenuto la mattina del 12 novembre 2003, giorno in cui a Nasiriyah morirono diciannove italiani, e tra loro suo marito, il vicebrigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta: «Hai sentito cos’è successo? Pare siano coinvolti gli italiani»...
Il mattino di sei anni fa Margherita Coletta, 33 anni e una bimba di due, guidava la macchina quando seppe che in Iraq c’era stato un attentato. Poi il drammatico copione, ogni volta lo stesso: «Per centinaia di famiglie che hanno un figlio, un marito, un padre in missione laggiù, l’attesa è angosciante, ti trema il cuore, pensi che non sarà toccato proprio a tuo marito, che lui starà di certo dando una mano ai feriti. Così pensavo io di Giuseppe. Poi le ore passavano e lui non chiamava, e la speranza man mano moriva. Infine ho visto fermarsi sotto casa mia la macchina del generale Giuliani... Non c’è stato bisogno di parole. Mi ha abbracciato ed è scoppiato a piangere... Penso alle famiglie in cui in queste ore sta avvenendo esattamente questo. Penso ai loro bambini: oggi i più grandicelli erano seduti al banco, al loro primo giorno di scuola».

Ogni volta per lei sarà un rivivere lo stesso dolore.
Questa mattina (ieri per chi legge, ndr) appena ho sentito la notizia non riuscivo ad accettare che stesse di nuovo accadendo, ho riprovato lo smarrimento. Chi fa questo mestiere è chiaro che mette in conto la morte, conosce i rischi che corre, e le famiglie fanno altrettanto, anche se chi è casa scaccia sempre il pensiero. Ma se sposi un militare condividi gli stessi valori.

Cos’è che spinge un uomo, magari anche un padre di famiglia, ad andare in missione di pace in regioni tanto pericolose?
Io posso parlare per mio marito. La divisa di Carabiniere gli era cucita addosso, non era solo un capo d’abbigliamento, era un modo di vivere, di agire e di pensare. Anche quando era in licenza. Giuseppe sentì la necessità di partire per portare aiuto alle popolazioni più sfortunate di noi dopo la morte del nostro primo bambino, Paolo, salito al cielo a soli sei anni per un cancro. Dopo un primo sbandamento, Giuseppe volle dare un senso al suo dolore, così andò in Albania, in Kossovo, in Bosnia e infine a Nasiriayh perché voleva evitare, per quanto gli fosse possibile, che altri bambini morissero, che altri genitori dovessero piangere. Nei mesi in cui era all’estero, insieme ai suoi colleghi e agli uomini del Corpo militare della Croce Rossa distribuiva camion di medicinali, vestiti, giocattoli, materiale scolastico, ogni genere di aiuti, che riusciva a farsi inviare da associazioni di volontariato in Italia. Finito l’orario di lavoro, questi ragazzi spesso proseguono andando a dare una mano negli ospedali pediatrici, o recandosi tra le tende dei nomadi, i più poveri tra i poveri.

Su queste missioni, però, si discute molto: sugli scopi, sull’utilità, sulla necessità di un rientro...
Stamattina, appena ho visto quelle terribili immagini così uguali ai giorni di Nasiriyah, quei corpi a brandelli coperti dai lenzuoli, quelle macchine sventrate, il fumo, le grida, la prima cosa che ho pensato è stata: speriamo che ora si eviti la solita retorica e le polemiche ad orologeria. Ogni volta che perdiamo qualcuno dei nostri ragazzi, da una parte dobbiamo subire frasi di circostanza e lunghe orazioni che grondano retorica, dall’altra sentiamo dire che dobbiamo subito ritirare le nostre forze. Non è questo il tempo per decidere se sia giusto restare o partire, oggi è il giorno dei morti e del rispetto per le loro famiglie. Io penso che sia troppo facile abbandonare quelle popolazioni al loro destino, starcene a guardare ciò che lì accade senza fare nulla, nell’agio e nella ricchezza delle nostre case, facendo finta che al di fuori il resto del mondo non esista. Anche noi italiani sessant’anni fa non fummo liberati? Non ricevemmo aiuti per ricostruire un nuovo Paese? Il vero problema sono le guerre, non le missioni di pace. È la guerra che non va mai fatta, per nessun motivo... proprio oggi sentivo un commentatore dire in tivù che a volte le guerre sono necessarie: questo è il vero orrore, la mentalità che purtroppo continua a muovere il mondo e gli interessi mostruosi che armano le nazioni. La logica della guerra è frutto solo di ignoranza, e questo accade quando ci si allontana da Dio.

Le missioni sono di pace, ma gli uomini sono lì in armi. Non è una contraddizione?
È un problema sul quale ho sempre riflettuto e una risposta univoca non è facile. Io però sto a quello che diceva e soprattutto che faceva mio marito. Lui non ha mai usato le armi in tutta la sua vita, i suoi compiti erano quelli dell’operazione "Antica Babilonia": distribuire aiuti umanitari, ripristinare i servizi essenziali alla popolazione, impedire violenze, sminare il terreno, ricostruire strade, fognature, pozzi, ospedali, scuole. Non solo: requisire bombe e kalashnikov, che erano in mano anche ai bambini. E non è realistico pensare che tutto questo si possa fare senza alcuna arma di difesa, in un Paese in cui i terroristi pur di destabilizzare uccidono anche la loro popolazione civile. A Nasiriyah i morti non furono diciannove ma ventotto: c’erano anche nove iracheni, in gran parte bambini.

A poche ore dalla strage le tivù diffusero le sue immagini mentre in lacrime leggeva il Vangelo di Matteo: "Amate il vostro nemico, perdonate al persecutore".
Con la logica dell’odio non si risolve nulla. L’odio si sconfigge con l’amore, la morte con la vita. Il giorno in cui mio marito cadde a Nasiriayh, dissi che se in quella missione aveva salvato la vita anche a un solo bambino, ne era valsa la pena.

Che cosa si sente di dire oggi ai familiari dei sei soldati?
È troppo presto per le parole, in queste ore il dolore è inconsolabile, meglio è il silenzio. Ma col tempo capiranno che Dio non ci lascia mai soli, abbiano fede e si affidino alla preghiera, perché in lui troveranno la forza per andare avanti. Ho perso un figlio e un marito, ma garantisco che il Signore porta la croce insieme a noi. E a quelle mogli, ai genitori, ai loro bambini dico di vivere d’ora in poi con la consapevolezza che i loro uomini hanno fatto la cosa giusta. Ora tocca a loro vivere per gli stessi ideali di pace.

Lucia Bellaspiga

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