13/07/22

"Come sarà essere toccati dall'Essere!"

Riporto un bellissimo articolo-testimonianza pubblicato sulla rivista TRACCE del Mese di Luglio-Agosto 2022 per gli amici che non la conoscono e non hanno l'opportunità di leggerla insieme all'invito ad abbonarsi a questo bel mensile.

Jone, amica carissima e collega, in questo periodo sta riprendendosi da una grave malattia neurologica, vissuta con fede e serenità. Invito a pregare per lei.

"Come sarà essere toccati dall'Essere!"
Jone Echarri

Jone Echarri è la fisioterapista che ha curato don Giussani nei momenti più difficili della sua malattia. Qui un estratto dalla sua testimonianza alle Giornate internazionali dedicate al fondatore di CL (Madrid, 31 marzo-2 aprile 2022)

Luigi Giussani è un uomo che è stato sorpreso, sedotto e catturato per sempre dall’Avvenimento di Cristo. Questo incontro ha dominato tutta la sua vita ed è stato la ragione della sua intera esistenza: vivere e testimoniare la Bellezza che lo aveva chiamato e alla quale aveva risposto con tanta passione. Questa appartenenza ha attraversato tutta la sua vita.

Ciò di cui sono più grata nel mio rapporto con lui è l’aver visto coi miei occhi il raro spettacolo di un uomo unito, che è la caratteristica più importante di ciò che Gesù ha promesso: “il centuplo quaggiù”. Unito in tutto, anche nelle situazioni più drammatiche, in cui si manifestavano debolezza e dolore, di cui dirò più avanti. Prima vorrei parlare di alcuni aspetti del suo quotidiano, che mostrano chiaramente chi era, cioè la sua autocoscienza. Perché nel momento della malattia diventa chiaro come e perché si vive.

Giussani iniziò la fisioterapia grazie a un’amica, Carmen Giussani, che venne nel mio studio e vide il trattamento che stavo praticando ai miei pazienti neurologici. Quando andò a Milano, gli spiegò quello che aveva visto: «Penso che questa terapia potrebbe farti bene». Qualche giorno dopo Giussani mi chiamò e mi disse: «Perché non vieni a curarmi per un fine settimana?». Era il 1994.

Le prime volte ho voluto che fosse curato dalla mia insegnante di Londra, una professionista riconosciuta a livello internazionale. Gli fece fare una seduta di fisioterapia e Giussani provò un forte sollievo dai sintomi. Con molta naturalezza disse: «Se una persona prova un così grande beneficio quando viene toccata dalle mani di un’altra persona, come sarà essere toccati dall’Essere!». Tutti noi presenti rimanemmo in silenzio, perché la malattia stava già mostrando il suo volto duro, eppure disse: «Cosa sarà essere toccati dall’Essere!». Da quel giorno ho voluto sapere cosa significasse quello che diceva, cosa significasse nella sua vita quotidiana.

Marx diceva che «la religione è l’oppio dei popoli». Al contrario, don Giussani diceva sempre che l’uomo religioso è quello che vive intensamente la realtà, e io ho detto: «Voglio osservare come tu vivi intensamente la realtà», perché è lì che si capisce tutto. E osservandolo attentamente, giorno dopo giorno, ho cominciato a vedere cose sorprendenti.

La prima cosa che mi ha colpito è stato il modo in cui si alzava al mattino. Era commovente. Si alzava in attesa degli eventi che sarebbero accaduti e dai quali, nonostante l’età avanzata, avrebbe potuto imparare. Mi diceva: «Jone, apri la finestra perché dobbiamo capire cosa dobbiamo imparare oggi». Dopo diversi giorni che lo sentivo ripetere quelle parole, un giorno gli chiesi: «Ma cos’è che dobbiamo imparare?», e lui mi rispose: «Che tutto questo giorno ci è dato per conoscerLo e amarLo».

Anche lì rimasi in silenzio e capii che lui voleva vivere la realtà scoprendo ogni mattina non solo cosa accadeva in essa, ma Chi c’era al fondo della realtà. Quel “Chi” è colui che dà valore e senso a tutte le cose; si percepiva un rapporto personale e familiare con il Mistero, che gli faceva vivere la realtà come un dono, qualcosa di donato a lui, alla sua stessa vita, a cui voleva aderire con cuore di bambino. Lì ho capito il senso della vita come vocazione in azione.

Il momento del pasto. Stavamo mangiando degli spaghetti con olio, aglio e peperoncino e lui esclamò: «Che bontà!». Poi ci pensò su e disse: «Ma come potrei dire “che bontà” se non esistesse una Bontà all’origine? Ecco, per far sì che aderiamo a Lui, il Signore ci ha dotato di una caratteristica fondamentale, il gusto, il piacere. Chi non ha un’educazione al gusto e al piacere, cioè alla corrispondenza dell’aderire al Mistero, non può essere libero» (cfr. A. Savorana, Vita di don Giussani, Bur, Milano 2014, p. 1031).

La cosa che più mi colpiva è che tutto ciò avveniva con grande spontaneità, era evidente che queste considerazioni nascevano dalla sua autocoscienza, da qualcosa che difficilmente riusciva a contenere… anche nel cibo si percepiva che, oltre a noi, per lui c’era un altro Ospite, e questo gli faceva godere ancora di più la tavola.

Un giorno si svegliò e disse alla sua segretaria: «Raduna tutti quelli che sono in casa». Ci riunimmo intorno al suo letto e lui disse: «Siamo qui perché vi prendete cura della mia salute, e questo va bene, ma non solo per questo. Non siamo insieme solo per quello che facciamo, ma per aiutarci ad ascoltare la voce che è dentro quello che facciamo. Quando questo accade, cambia l’aria, come quando vado al mare, cambia l’aria perché c’è il mare» (cfr. ibidem, p. 1118). Da quel giorno sono diventata sempre più consapevole che il mare era il Signore dell’universo, presente lì, dentro quello che stavamo facendo. Il legame con un tale Signore mi ha spalancato le porte al rapporto con le persone che avevano il compito di prendersi cura di lui e mi ha anche aperto le porte del mondo. Tra quelle quattro mura ho capito che ciò che stavo facendo era per il bene del mondo, grazie a uno che ci testimoniava che il Mare era lì.

Come imparava dalla malattia. Un giorno, rivolgendosi a me con uno sguardo molto intenso, disse: «Sai cosa sto imparando dalla fisioterapia?». Rimasi sorpresa, e lui proseguì: «Sto imparando a conoscere la relazione che c’è tra fisioterapia e moralità. Quando Marco Bersanelli – un amico astrofisico – mi parla, percepisco che mi sta parlando di un macrocosmo. Invece, quando tu lavori sul mio corpo, percepisco un microcosmo, fatto di parti minuscole, dove ognuna di esse funziona in perfetta armonia con le altre. Ogni parte del corpo agisce per svolgere la propria funzione, in funzione dell’insieme. Se si guarda in modo parziale, può sembrare che sia solo qualcosa di disordinato, il corpo è visto come qualcosa di meccanico. Invece, il punto di vista morale della fisioterapia è l’ordine di ogni parte, come funzione del tutto. Il principio del valore del corpo e dello spirito è identico, è una perfetta analogia con la morale, consiste nell’unità di tutto l’uomo fisico e della sua coscienza. Sto guardando a come posso trasmettere ciò che sto imparando dalla fisioterapia» (cfr. ibidem, p. 990).

Mi ha stupito vedere come vivesse tutto, anche le cose più piccole, in relazione alla verità ultima. Era un uomo la cui ragione non si fermava all’apparenza, ma si apriva alla scoperta ultima che dava un senso completo a tutto ciò che viveva. Io, che ero fisioterapista da tanti anni, non avrei potuto immaginare minimamente ciò che lui percepiva.

Un giorno presi coraggio e gli feci una domanda decisiva: «Come posso vivere con l’intensità con cui vivi tu?». Mi guardò molto seriamente e disse: «Devi prendere l’iniziativa, devi fare della tua vita un rapporto personale con Cristo, cioè devi vivere la memoria e lasciare che Lui invada ogni aspetto della tua vita, e ti assicuro che se vivrai la memoria avrai la stessa intensità di vita che ho io». Voglio sottolineare che don Giussani usava raramente il verbo «devi», ma in questa occasione, per indicare la serietà e la gravità di ciò che mi stava dicendo, usò quella parola con decisione: «Devi». «Guarda, Jone, il povero di spirito è l’uomo che ha deciso, e tu devi decidere». Da quel momento si è compiuto un passo nella mia vita, volevo vivere la stessa bellezza di vita che vedevo in lui nonostante la malattia, e accettare la sfida che mi aveva lanciato.

Ha cambiato il mio modo di lavorare. Io sono una fisioterapista neurologica e mi occupavo di pazienti che hanno sofferto problemi molto gravi, come la paralisi di uno o di entrambi gli emisferi corporei. Alcuni di loro recuperavano bene le loro capacità funzionali e ritornavano a condurre una vita abbastanza normale. Questo significava un’enorme gratitudine da parte loro e delle famiglie, che mi guardavano quasi come un semidio. Vedendo l’importanza che il mio lavoro aveva per le persone, Giussani un giorno mi fece una domanda radicale: «Ehi, Jone, chi pensi che sia più fortunato, tu che fai questo lavoro o chi lavora 8 o 10 ore alla catena di montaggio?». Rimasi in silenzio e lui disse: «Ti ho messo in difficoltà, vero? Be’, quello della catena di montaggio è più fortunato, perché se non facesse memoria, si sparerebbe».

Per don Giussani la memoria era una questione di vita o di morte; voleva dire che la memoria non è un’opzione ma una vocazione; voleva mostrarmi che il valore del lavoro non sta solo nel fare ma nell’appartenere: l’appartenere viene prima del fare. Per questo mi diceva: «La soddisfazione della giornata non comincia quando iniziamo a lavorare, ma un minuto prima, quando prendiamo coscienza di ciò che ci è accaduto, dell’Evento che ci ha attratto, e solo allora prendiamo coscienza di noi stessi».

Da allora, prima di aprire la porta del mio ambulatorio, mi dicevo: «Sto entrando in un luogo sacro». Ero consapevole che, attraverso la memoria, Lui stava entrando in quel luogo e potevo percepire chiaramente che la sua presenza aveva a che fare con tutto ciò che accadeva sul lavoro, lo spazio fra quelle quattro mura si dilatava al mondo. Questo, che può sembrare poco concreto, è diventato concretissimo per me. Immaginate dei giovani, dei genitori che non avranno mai un figlio come quello che avevano prima dell’incidente… Eppure ho potuto stare davanti a loro, camminare con loro, sostenere la loro speranza, perché sapevo che tutto era stato redento da Colui che era presente. Quante delusioni, quante frustrazioni, quante notti insonni mi ha risparmiato.

Mi ricordava sempre: «Per stare con pazienti come noi, per sostenere la speranza degli uomini, ci vuole molta forza, e questa forza non viene da te, non illuderti! O vivi della memoria di Cristo o non riuscirai a tenere lo sguardo sui malati. All’inizio lo farai, ma a poco a poco comincerai ad abbassare gli occhi, poi a indietreggiare, poi a lamentarti e alla fine perderai l’entusiasmo di servire il capolavoro del Creatore, che è l’uomo, e di lavorare per la gloria umana di Cristo».

Il valore dell’istante. Stava diventando sempre più acuto, la sua consapevolezza sempre più profonda. Un giorno parlava del valore dell’istante: «Ogni istante è per l’eternità». Gli chiesi: «Come posso vivere questo se, per esempio, vedo una persona solo una volta o se la persona che incontro è proprio quella con cui ho più difficoltà, quella che mi fa più male? Potrebbe essere al lavoro, in famiglia…». E lui: «La persona che hai davanti ha il tuo stesso cuore e il tuo stesso destino. Il destino si è manifestato a te perché ti ama, ma ama anche la persona che incontri, anche se ti fa soffrire. Se il tuo sguardo abbraccia quella persona con questa consapevolezza, quando vi incontrerete in Paradiso, essa ti correrà incontro e ti abbraccerà, perché in un certo momento della sua vita tu l’hai guardata come la guarda ora Cristo».

Sono rimasta molto colpita. È davvero necessario mantenere vivo il desiderio di essere educati a guardare in questo modo, perché così non si perde nulla: né l’istante apparentemente banale di uno sguardo, né il dolore causato da una persona. Mi ha insegnato a guardare le persone con rispetto, il che non significa trattarle con educazione; significa guardare una persona pensando a un Altro.

Cominciano ad apparire i limiti nell’espressione. Era il 1997. Don Giussani aveva sempre predicato gli Esercizi della Fraternità dal vivo, ma incominciava ad avere difficoltà con la dizione e decise di registrarli in video. Eravamo lì davanti a lui, un piccolo gruppo di persone, perché non gli piaceva parlare da solo davanti alla telecamera; voleva vedere i nostri volti per sapere se le sue parole ci raggiungevano. Alla fine della sua lezione ci chiese: «Com’è andata?». E noi rispondemmo con entusiasmo: «Fantastico», ma prima che potessimo continuare disse: «Non potete capire, non potete capire…». Cosa non riuscivamo a capire? «Che Dio in questo periodo mi sta dando molto, moltissimo, ma mi sta togliendo la capacità di esprimermi, ed è un bene, altrimenti diventerei un uomo orgoglioso» (cfr. ibidem, p. 987).

Il suo cammino attraverso il dolore. La malattia continuava il suo corso, e cominciò a comparire il sintomo più temuto: il dolore. Invece, lui diceva: «Dio permette la sofferenza perché la vita sia più vita. La vita senza sofferenza si rimpicciolisce, si chiude in se stessa» (cfr. ibidem, p. 1091). Ma a volte il dolore era forte e durava a lungo. Ero triste perché non sapevo come aiutarlo, ma lui mi diceva: «Non essere triste, perché anche questo è positivo, penso che sia il modo di partecipare alla passione di Cristo. Anche Lui era un uomo come me» (cfr. ibidem, p. 1072).

La vita diventava sempre più dura: perdeva la mobilità, la parola, aveva momenti dolorosi… ma non ridusse mai la sua statura umana. Le esigenze del suo cuore continuavano a rimanere vive, voleva vivere intensamente le circostanze, dicendo “sì” al Mistero. Sapeva che Cristo le aveva attraversate e vinte. Per questo diceva: «Dio non mostra il suo amore solo quando ci dà cose buone, ma anche quando permette cose che non ci piacciono», e questa certezza dell’amore che Dio gli dava era percepibile nel suo stato d’animo. Un giorno in cui si sentiva meglio, disse: «È come se la Vergine Maria, san Giuseppe e san Riccardo Pampuri mi dicessero: “Teniamo a te, vai avanti, stiamo facendo del nostro meglio!”». Ma un giorno scoprii che stava provando anche un altro tipo di dolore. Era molto triste e gli chiesi: «C’è qualcosa che non va, stai male?». Rispose: «Non ho niente fisicamente, ma non posso sopportare il pensiero che così tante persone non conoscano Cristo».

Vidi come viveva per Cristo e in Cristo il giorno del suo ultimo onomastico, san Luigi Gonzaga. Stava ormai molto male e mi disse: «Mi resta poca vita, ma fino all’ultimo respiro il mio primo sentimento continuerà a essere la gratitudine, perché questa vita viene da Lui» (cfr. ibidem, p. 1146). Mi lasciò pensierosa. La cosa abituale in queste situazioni è sentirsi dire: «Questa vita non è vita, per vivere così è meglio morire…». Invece, il suo primo sentimento era la gratitudine, il riconoscimento di Dio come fonte che comunicava la vita al suo essere.

Un altro momento chiave per capire chi fosse Cristo per lui fu quando visse un periodo di inattività, cosa abbastanza comune nei malati di Parkinson. Succede all’improvviso, senza preavviso, i pazienti rimangono come senza batteria, completamente scarichi. Quando uscì da quella trance, gli dissi: «Quando stai così, devi sentirti molto solo». Rispose: «Non sono mai solo, perché Cristo è il compagno indivisibile del mio io». Ho desiderato di conservare queste parole in me per tutti i giorni della mia vita.

Arrivò un giorno decisivo, che mi segnò molto. Nell’ottobre 2004 ebbe una giornata molto dura e la sera, quando tutto era finito, mi disse: «Che giornata orribile». Era così, un uomo realista, ma subito dopo aggiunse: «Ma se vivo questa giornata con la tensione di attraversare queste circostanze vivendo le occasioni che il Mistero permette, ho l’indomabile certezza che camminerò meglio e più velocemente verso il Destino che un giorno vedrò, molto più che con tutti i progetti che potrei pianificare per questa giornata. Ecco perché questa giornata è bella, perché è vera» (cfr. ibidem, p. 1146).

Come potete immaginare, all’udire questo, dopo una giornata così terribile – e non era l’unica – ho capito che viveva la vita come un’offerta, con una fiducia illimitata nel disegno del Padre. Intuiva che l’incontro definitivo era ormai vicino, e nello stesso tempo accettava la Sua volontà, sapendo che tutto era per il suo bene, e desiderando ardentemente di collaborare all’opera redentrice di Cristo.





21/07/21

Testimone di speranza


“Fin dall’inizio di questa pandemia ho provato timore per una condizione di salute che mi porto dietro e che mi fa essere tra quelli che si definiscono “soggetti a rischio”. Il periodo estivo aveva fatto credere che tutto fosse un po’ più sotto controllo. C'era stata inoltre la notizia dei vaccini e io mi ero detta in cuor mio: “Sono a posto! Non devo più temere’. Avevo quindi riposto nel vaccino le mie speranze. Invece tutto si e ribaltato poco tempo dopo. 

Sono rimasta incinta e non ho fatto il vaccino (per i rischi che avrei corso a parere del medico, a cui mi sono rivolta seguendo le indicazioni delle autorità sanitare italiane). Mio marito, per fortuna, ha trovato un nuovo lavoro, ma questo non gli consente di stare a casa come l’anno scorso. In più la mia citta in questa nuova ondata del Covid ha avuto il record di contagi. 

Ma allora dov'è la mia speranza, mi sono detta? Nelle mie giornate, mi pongo spesso questa domanda, che e come un rilancio a fare un lavoro di verifica in quello che accade e che mi circonda. Questa domanda mi fa ripartire. Quando per esempio io e mio marito, entrambi timorosi per carattere, ci lasciamo prendere dall'ansia, basta a volte che ci ripetiamo: “C’e speranza?", per tornare a guardare altro, o meglio, un Altro che e accaduto nella nostra vita e che ci ha presi. E allora domandiamo a Lui, a Chi e la nostra speranza! Questo e diventato per noi un lavoro quotidiano di verifica.

Un episodio mi ha fatto capire meglio la questione della speranza. 

Di recente il mio primogenito, disabile fin dalla nascita, ha compiuto otto anni. Quella sera, abbiamo chiesto ai nostri figli, prima di mangiare la torta di compleanno, una preghiera diversa dal solito: ciascuno doveva esprimere un motivo per cui ringraziare. Mio figlio di otto anni, il festeggiato, ha detto: “Io ringrazio Dio per la mia esistenza, perché io volevo nascere, volevo esserci’. Sentendo quelle parole io e mio marito ci siamo fulmineamente guardati: la mente e andata alla gravidanza di questo figlio, al momento in cui abbiamo scoperto che aveva una rara malformazione. 

Ho ripensato a tutte le pressioni dei medici per interrompere la gravidanza e anche ai conoscenti che ci dicevano che mettere al mondo un figlio simile voleva dire condannarlo all’infelicità. Dopo otto anni, quello stesso figlio ci ha detto quelle parole, così forti e penetranti per il mio cuore di madre. Questo mi ha talmente scosso e commosso che anch'io ho ringraziato Dio per il sì che mio marito e io, per grazia, abbiamo detto alla sua vita. 

E ho anche capito che c’è speranza! La speranza c’è sempre, anche nelle situazioni più complicate, perché la vita, la realtà e positiva, e per un bene! Allora anche il Coronavirus, le situazioni drammatiche, di fatica, di limite, non possono togliermi la speranza di dire che nella realtà c’è una positività ultima, perché e un Altro che la fa. Un Altro che si nasconde nell'apparenza delle cose e che non mi abbandona mai, mi si è fatto incontro e mi prende ogni giorno con tenerezza, attraverso il bene gratuito di mio marito, dei miei figli, attraverso i fatti che accadono e attraverso questa nostra compagnia, che mi aiuta dicendomi: “Guarda che dietro alle nuvole c’è il sole".»

(da "C'è speranza?" di Juliàn Carròn)



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