Luigi
Giussani è un uomo che è stato sorpreso, sedotto e catturato per sempre
dall’Avvenimento di Cristo. Questo incontro ha dominato tutta la sua vita ed è
stato la ragione della sua intera esistenza: vivere e testimoniare la Bellezza
che lo aveva chiamato e alla quale aveva risposto con tanta passione. Questa
appartenenza ha attraversato tutta la sua vita.
Ciò
di cui sono più grata nel mio rapporto con lui è l’aver visto coi miei occhi il
raro spettacolo di un uomo unito, che è la caratteristica più importante di ciò
che Gesù ha promesso: “il centuplo quaggiù”. Unito in tutto, anche nelle
situazioni più drammatiche, in cui si manifestavano debolezza e dolore, di cui
dirò più avanti. Prima vorrei parlare di alcuni aspetti del suo quotidiano, che
mostrano chiaramente chi era, cioè la sua autocoscienza. Perché nel momento
della malattia diventa chiaro come e perché si vive.
Giussani
iniziò la fisioterapia grazie a un’amica, Carmen Giussani, che venne nel mio
studio e vide il trattamento che stavo praticando ai miei pazienti neurologici.
Quando andò a Milano, gli spiegò quello che aveva visto: «Penso che questa
terapia potrebbe farti bene». Qualche giorno dopo Giussani mi chiamò e mi
disse: «Perché non vieni a curarmi per un fine settimana?». Era il 1994.
Le
prime volte ho voluto che fosse curato dalla mia insegnante di Londra, una
professionista riconosciuta a livello internazionale. Gli fece fare una seduta
di fisioterapia e Giussani provò un forte sollievo dai sintomi. Con molta
naturalezza disse: «Se una persona prova un così grande beneficio quando viene
toccata dalle mani di un’altra persona, come sarà essere toccati dall’Essere!».
Tutti noi presenti rimanemmo in silenzio, perché la malattia stava già
mostrando il suo volto duro, eppure disse: «Cosa sarà essere toccati
dall’Essere!». Da quel giorno ho voluto sapere cosa significasse quello che
diceva, cosa significasse nella sua vita quotidiana.
Marx
diceva che «la religione è l’oppio dei popoli». Al contrario, don Giussani
diceva sempre che l’uomo religioso è quello che vive intensamente la realtà, e
io ho detto: «Voglio osservare come tu vivi intensamente la realtà», perché è
lì che si capisce tutto. E osservandolo attentamente, giorno dopo giorno, ho
cominciato a vedere cose sorprendenti.
La
prima cosa che mi ha colpito è stato il modo in cui si alzava al mattino. Era
commovente. Si alzava in attesa degli eventi che sarebbero accaduti e dai
quali, nonostante l’età avanzata, avrebbe potuto imparare. Mi diceva: «Jone, apri
la finestra perché dobbiamo capire cosa dobbiamo imparare oggi». Dopo diversi
giorni che lo sentivo ripetere quelle parole, un giorno gli chiesi: «Ma cos’è
che dobbiamo imparare?», e lui mi rispose: «Che tutto questo giorno ci è dato
per conoscerLo e amarLo».
Anche
lì rimasi in silenzio e capii che lui voleva vivere la realtà scoprendo ogni
mattina non solo cosa accadeva in essa, ma Chi c’era al fondo della realtà.
Quel “Chi” è colui che dà valore e senso a tutte le cose; si percepiva un
rapporto personale e familiare con il Mistero, che gli faceva vivere la realtà
come un dono, qualcosa di donato a lui, alla sua stessa vita, a cui voleva
aderire con cuore di bambino. Lì ho capito il senso della vita come vocazione
in azione.
Il
momento del pasto. Stavamo mangiando degli spaghetti con olio, aglio e
peperoncino e lui esclamò: «Che bontà!». Poi ci pensò su e disse: «Ma come
potrei dire “che bontà” se non esistesse una Bontà all’origine? Ecco, per far
sì che aderiamo a Lui, il Signore ci ha dotato di una caratteristica
fondamentale, il gusto, il piacere. Chi non ha un’educazione al gusto e al
piacere, cioè alla corrispondenza dell’aderire al Mistero, non può essere
libero» (cfr. A. Savorana, Vita di don Giussani, Bur, Milano 2014, p. 1031).
La
cosa che più mi colpiva è che tutto ciò avveniva con grande spontaneità, era
evidente che queste considerazioni nascevano dalla sua autocoscienza, da
qualcosa che difficilmente riusciva a contenere… anche nel cibo si percepiva
che, oltre a noi, per lui c’era un altro Ospite, e questo gli faceva godere
ancora di più la tavola.
Un
giorno si svegliò e disse alla sua segretaria: «Raduna tutti quelli che sono in
casa». Ci riunimmo intorno al suo letto e lui disse: «Siamo qui perché vi
prendete cura della mia salute, e questo va bene, ma non solo per questo. Non
siamo insieme solo per quello che facciamo, ma per aiutarci ad ascoltare la
voce che è dentro quello che facciamo. Quando questo accade, cambia l’aria,
come quando vado al mare, cambia l’aria perché c’è il mare» (cfr. ibidem, p.
1118). Da quel giorno sono diventata sempre più consapevole che il mare era il
Signore dell’universo, presente lì, dentro quello che stavamo facendo. Il
legame con un tale Signore mi ha spalancato le porte al rapporto con le persone
che avevano il compito di prendersi cura di lui e mi ha anche aperto le porte
del mondo. Tra quelle quattro mura ho capito che ciò che stavo facendo era per
il bene del mondo, grazie a uno che ci testimoniava che il Mare era lì.
Come
imparava dalla malattia. Un giorno, rivolgendosi a me con uno sguardo molto
intenso, disse: «Sai cosa sto imparando dalla fisioterapia?». Rimasi sorpresa,
e lui proseguì: «Sto imparando a conoscere la relazione che c’è tra
fisioterapia e moralità. Quando Marco Bersanelli – un amico astrofisico – mi
parla, percepisco che mi sta parlando di un macrocosmo. Invece, quando tu
lavori sul mio corpo, percepisco un microcosmo, fatto di parti minuscole, dove
ognuna di esse funziona in perfetta armonia con le altre. Ogni parte del corpo
agisce per svolgere la propria funzione, in funzione dell’insieme. Se si guarda
in modo parziale, può sembrare che sia solo qualcosa di disordinato, il corpo è
visto come qualcosa di meccanico. Invece, il punto di vista morale della
fisioterapia è l’ordine di ogni parte, come funzione del tutto. Il principio
del valore del corpo e dello spirito è identico, è una perfetta analogia con la
morale, consiste nell’unità di tutto l’uomo fisico e della sua coscienza. Sto
guardando a come posso trasmettere ciò che sto imparando dalla fisioterapia»
(cfr. ibidem, p. 990).
Mi
ha stupito vedere come vivesse tutto, anche le cose più piccole, in relazione
alla verità ultima. Era un uomo la cui ragione non si fermava all’apparenza, ma
si apriva alla scoperta ultima che dava un senso completo a tutto ciò che
viveva. Io, che ero fisioterapista da tanti anni, non avrei potuto immaginare
minimamente ciò che lui percepiva.
Un
giorno presi coraggio e gli feci una domanda decisiva: «Come posso vivere con
l’intensità con cui vivi tu?». Mi guardò molto seriamente e disse: «Devi
prendere l’iniziativa, devi fare della tua vita un rapporto personale con
Cristo, cioè devi vivere la memoria e lasciare che Lui invada ogni aspetto
della tua vita, e ti assicuro che se vivrai la memoria avrai la stessa
intensità di vita che ho io». Voglio sottolineare che don Giussani usava
raramente il verbo «devi», ma in questa occasione, per indicare la serietà e la
gravità di ciò che mi stava dicendo, usò quella parola con decisione: «Devi».
«Guarda, Jone, il povero di spirito è l’uomo che ha deciso, e tu devi
decidere». Da quel momento si è compiuto un passo nella mia vita, volevo vivere
la stessa bellezza di vita che vedevo in lui nonostante la malattia, e
accettare la sfida che mi aveva lanciato.
Ha
cambiato il mio modo di lavorare. Io sono una fisioterapista neurologica e mi
occupavo di pazienti che hanno sofferto problemi molto gravi, come la paralisi
di uno o di entrambi gli emisferi corporei. Alcuni di loro recuperavano bene le
loro capacità funzionali e ritornavano a condurre una vita abbastanza normale.
Questo significava un’enorme gratitudine da parte loro e delle famiglie, che mi
guardavano quasi come un semidio. Vedendo l’importanza che il mio lavoro aveva
per le persone, Giussani un giorno mi fece una domanda radicale: «Ehi, Jone,
chi pensi che sia più fortunato, tu che fai questo lavoro o chi lavora 8 o 10
ore alla catena di montaggio?». Rimasi in silenzio e lui disse: «Ti ho messo in
difficoltà, vero? Be’, quello della catena di montaggio è più fortunato, perché
se non facesse memoria, si sparerebbe».
Per
don Giussani la memoria era una questione di vita o di morte; voleva dire che
la memoria non è un’opzione ma una vocazione; voleva mostrarmi che il valore
del lavoro non sta solo nel fare ma nell’appartenere: l’appartenere viene prima
del fare. Per questo mi diceva: «La soddisfazione della giornata non comincia
quando iniziamo a lavorare, ma un minuto prima, quando prendiamo coscienza di
ciò che ci è accaduto, dell’Evento che ci ha attratto, e solo allora prendiamo
coscienza di noi stessi».
Da
allora, prima di aprire la porta del mio ambulatorio, mi dicevo: «Sto entrando
in un luogo sacro». Ero consapevole che, attraverso la memoria, Lui stava
entrando in quel luogo e potevo percepire chiaramente che la sua presenza aveva
a che fare con tutto ciò che accadeva sul lavoro, lo spazio fra quelle quattro
mura si dilatava al mondo. Questo, che può sembrare poco concreto, è diventato
concretissimo per me. Immaginate dei giovani, dei genitori che non avranno mai un
figlio come quello che avevano prima dell’incidente… Eppure ho potuto stare
davanti a loro, camminare con loro, sostenere la loro speranza, perché sapevo
che tutto era stato redento da Colui che era presente. Quante delusioni, quante
frustrazioni, quante notti insonni mi ha risparmiato.
Mi
ricordava sempre: «Per stare con pazienti come noi, per sostenere la speranza
degli uomini, ci vuole molta forza, e questa forza non viene da te, non
illuderti! O vivi della memoria di Cristo o non riuscirai a tenere lo sguardo
sui malati. All’inizio lo farai, ma a poco a poco comincerai ad abbassare gli
occhi, poi a indietreggiare, poi a lamentarti e alla fine perderai l’entusiasmo
di servire il capolavoro del Creatore, che è l’uomo, e di lavorare per la
gloria umana di Cristo».
Il
valore dell’istante. Stava diventando sempre più acuto, la sua consapevolezza
sempre più profonda. Un giorno parlava del valore dell’istante: «Ogni istante è
per l’eternità». Gli chiesi: «Come posso vivere questo se, per esempio, vedo
una persona solo una volta o se la persona che incontro è proprio quella con
cui ho più difficoltà, quella che mi fa più male? Potrebbe essere al lavoro, in
famiglia…». E lui: «La persona che hai davanti ha il tuo stesso cuore e il tuo
stesso destino. Il destino si è manifestato a te perché ti ama, ma ama anche la
persona che incontri, anche se ti fa soffrire. Se il tuo sguardo abbraccia
quella persona con questa consapevolezza, quando vi incontrerete in Paradiso,
essa ti correrà incontro e ti abbraccerà, perché in un certo momento della sua
vita tu l’hai guardata come la guarda ora Cristo».
Sono
rimasta molto colpita. È davvero necessario mantenere vivo il desiderio di
essere educati a guardare in questo modo, perché così non si perde nulla: né
l’istante apparentemente banale di uno sguardo, né il dolore causato da una
persona. Mi ha insegnato a guardare le persone con rispetto, il che non
significa trattarle con educazione; significa guardare una persona pensando a
un Altro.
Cominciano
ad apparire i limiti nell’espressione. Era il 1997. Don Giussani aveva sempre
predicato gli Esercizi della Fraternità dal vivo, ma incominciava ad avere
difficoltà con la dizione e decise di registrarli in video. Eravamo lì davanti
a lui, un piccolo gruppo di persone, perché non gli piaceva parlare da solo
davanti alla telecamera; voleva vedere i nostri volti per sapere se le sue
parole ci raggiungevano. Alla fine della sua lezione ci chiese: «Com’è
andata?». E noi rispondemmo con entusiasmo: «Fantastico», ma prima che
potessimo continuare disse: «Non potete capire, non potete capire…». Cosa non
riuscivamo a capire? «Che Dio in questo periodo mi sta dando molto, moltissimo,
ma mi sta togliendo la capacità di esprimermi, ed è un bene, altrimenti
diventerei un uomo orgoglioso» (cfr. ibidem, p. 987).
Il
suo cammino attraverso il dolore. La malattia continuava il suo corso, e
cominciò a comparire il sintomo più temuto: il dolore. Invece, lui diceva: «Dio
permette la sofferenza perché la vita sia più vita. La vita senza sofferenza si
rimpicciolisce, si chiude in se stessa» (cfr. ibidem, p. 1091). Ma a volte il
dolore era forte e durava a lungo. Ero triste perché non sapevo come aiutarlo,
ma lui mi diceva: «Non essere triste, perché anche questo è positivo, penso che
sia il modo di partecipare alla passione di Cristo. Anche Lui era un uomo come
me» (cfr. ibidem, p. 1072).
La
vita diventava sempre più dura: perdeva la mobilità, la parola, aveva momenti
dolorosi… ma non ridusse mai la sua statura umana. Le esigenze del suo cuore
continuavano a rimanere vive, voleva vivere intensamente le circostanze,
dicendo “sì” al Mistero. Sapeva che Cristo le aveva attraversate e vinte. Per
questo diceva: «Dio non mostra il suo amore solo quando ci dà cose buone, ma
anche quando permette cose che non ci piacciono», e questa certezza dell’amore
che Dio gli dava era percepibile nel suo stato d’animo. Un giorno in cui si
sentiva meglio, disse: «È come se la Vergine Maria, san Giuseppe e san Riccardo
Pampuri mi dicessero: “Teniamo a te, vai avanti, stiamo facendo del nostro
meglio!”». Ma un giorno scoprii che stava provando anche un altro tipo di
dolore. Era molto triste e gli chiesi: «C’è qualcosa che non va, stai male?».
Rispose: «Non ho niente fisicamente, ma non posso sopportare il pensiero che
così tante persone non conoscano Cristo».
Vidi
come viveva per Cristo e in Cristo il giorno del suo ultimo onomastico, san
Luigi Gonzaga. Stava ormai molto male e mi disse: «Mi resta poca vita, ma fino
all’ultimo respiro il mio primo sentimento continuerà a essere la gratitudine,
perché questa vita viene da Lui» (cfr. ibidem, p. 1146). Mi lasciò pensierosa.
La cosa abituale in queste situazioni è sentirsi dire: «Questa vita non è vita,
per vivere così è meglio morire…». Invece, il suo primo sentimento era la
gratitudine, il riconoscimento di Dio come fonte che comunicava la vita al suo
essere.
Un
altro momento chiave per capire chi fosse Cristo per lui fu quando visse un
periodo di inattività, cosa abbastanza comune nei malati di Parkinson. Succede
all’improvviso, senza preavviso, i pazienti rimangono come senza batteria,
completamente scarichi. Quando uscì da quella trance, gli dissi: «Quando stai
così, devi sentirti molto solo». Rispose: «Non sono mai solo, perché Cristo è
il compagno indivisibile del mio io». Ho desiderato di conservare queste parole
in me per tutti i giorni della mia vita.
Arrivò
un giorno decisivo, che mi segnò molto. Nell’ottobre 2004 ebbe una giornata
molto dura e la sera, quando tutto era finito, mi disse: «Che giornata
orribile». Era così, un uomo realista, ma subito dopo aggiunse: «Ma se vivo
questa giornata con la tensione di attraversare queste circostanze vivendo le
occasioni che il Mistero permette, ho l’indomabile certezza che camminerò
meglio e più velocemente verso il Destino che un giorno vedrò, molto più che
con tutti i progetti che potrei pianificare per questa giornata. Ecco perché
questa giornata è bella, perché è vera» (cfr. ibidem, p. 1146).
Come
potete immaginare, all’udire questo, dopo una giornata così terribile – e non
era l’unica – ho capito che viveva la vita come un’offerta, con una fiducia
illimitata nel disegno del Padre. Intuiva che l’incontro definitivo era ormai
vicino, e nello stesso tempo accettava la Sua volontà, sapendo che tutto era
per il suo bene, e desiderando ardentemente di collaborare all’opera redentrice
di Cristo.